LAVORO: I diritti di chi soffre di mal di schiena

In Italia quasi il 25% della popolazione soffre di mal di schiena e la percentuale aumenta con l’aumentare dell’età arrivando addirittura all’80% degli anziani.

Non a caso il mal di schiena è la causa più ricorrente di infermità lavorativa e di disabilità. Si va dalla semplice lombalgia alla più noiosa lombo sciatalgia (che, come noto, è un risentimento collegato a una patologia della schiena), dal bunging alla protrusione vertebrale; dalla scoliosi fino all’ernia con espulsione che è una delle forme più invalidanti e dolorose di mal di schiena. Analizziamo, quindi, quali sono le conseguenze sull’aspetto lavorativo.

In pratica chi soffre di mal di schiena può farsi visitare dal proprio medico di famiglia che, se lo riterrà,  assegnarà  i giorni di malattia.

Se il dolore è tale da non potersi recare dal medico di base, si potrà richiederà una visita domiciliare, ma è sempre il sanitario che decide se vi è necessità e se il paziente è in condizione di non trasportabilità. Se sussistono tali due condizioni, vi è il diritto alla visita a domicilio. In mancanza, bisogna stringere i denti e andare in ambulatorio.

In quanto assente dal lavoro, il dipendente deve essere reperibile nelle fasce orarie previste per la visita fiscale e deve anche astenersi, nei momenti successivi della giornata, dal compiere sforzi e tutto ciò che possa ritardare la guarigione. Infatti, per il Tribunale, aggravare la propria patologia, ad esempio facendo lavori pesanti quando si è  assenti per malattia da mal di schiena, ha legittimato il  licenziamento inflitto ad un  dipendente, proprio per il fatto che il lavoratore deve fare in modo di rimettersi al più presto per non privare a lungo l’azienda della propria presenza.

Se, a seguito di visita fiscale, il medico dell’INPS certifica che il dipendente può tornare sul lavoro e questi, invece, ritiene che il mal di schiena non sia ancora passato,  potrà presentare ricorso al Coordinatore sanitario della competente sede Inps, cui spetta la decisione definitiva, ma nel frattempo, se ancora coperto dal certificato del medico di base,  potrà rimanere a casa per la convalescenza.

Durante i giorni di assenza il dipendente ha comunque diritto alla retribuzione, in genere pagata dall’Inps, con la cosiddetta indennità di malattia e in alcuni casi con integrazione del datore di lavoro.

 

Attenzione però a non superare mai il cosiddetto periodo di «comporto», cioè il termine massimo di assenza previsto dal proprio CCNL, superato il quale scatta il licenziamento, a meno che la patologia causata dal mal di schiena sia imputabile a  causa di servizio, ma in questo caso occorre la prova rigorosa che  l’azienda non ha predisposto le misure di sicurezza necessarie a evitare tale rischio.

 

In ogni caso, chi soffre di mal di schiena deve farlo presente al datore di lavoro con un certificato medico affinché questi non adibisca l’interessato a mansioni incompatibili con il suo stato di salute. Se non informa di ciò il datore, quest’ultimo non può poi essere ritenuto responsabile dell’eventuale aggravamento della malattia. Così come non vi è alcun obbligo per l’Azienda di ristrutturare il proprio organigramma: in altre parole, se tutte le altre posizioni lavorative sono già occupate da altri dipendenti e non c’è possibilità di reimpiegare il malato in altre mansioni quest’ultimo potrà essere licenziato.

Invece, se la patologia da mal di schiena è causata  da una specifica causa lavorativa (cosiddetta «malattia professionale tabellare»)  il lavoratore potrà fare causa all’azienda al fine di  ottenere la rendita dall’INAIL.  I casi espressamente previsti per cui  il rapporto di causa/effetto si presume automaticamente sono:

1) lavorazioni svolte in modo non occasionale con macchine che espongono a vibrazioni trasmesse al corpo intero: macchine movimentazione materiali vari, trattori, gru portuali, carrelli sollevatori (muletti), imbarcazioni per pesca professionale costiera e d’altura;

2) lavorazioni di movimentazione manuale dei carichi svolte in modo non occasionale in assenza di ausili efficaci.

Fuori da queste ipotesi, il lavoratore può, in ogni caso, fare causa all’Azienda, ma dovrà dimostrare il cd. nesso causale, cioè la  dipendenza della malattia dall’ambiente di lavoro

 

Dal punto di vista fiscale, come tutte le spese mediche, anche quelle per il mal di schiena possono essere detratte dalle imposte: farmaci, consulenze specialistiche e  indagini strumentali, come la risonanza magnetica, la tac, l’ecografia, ecc.

I problemi principali si pongono per la riabilitazione. La fisioterapia eseguita da un centro medico specializzato può essere certamente detratta dall’imponibile: così, ad esempio, le sedute di ozonoterapia, la tens, la ionoforesi, gli infrarossi, la tecar terapia, le trazioni, la massoterapia, ecc.

La ginnastica posturale e la riabilitazione (anche in acqua) sono detraibili a condizione che, oltre al certificato medico con la prescrizione, la prestazione sia svolta da un medico o da un fisioterapista oppure la fattura sia rilasciata da un centro medico specializzato in ortopedia. Dunque la ginnastica non può essere svolta in un centro sportivo qualsiasi se non c’è personale qualificato.

Infine anche  l’acquisto del materasso ortopedico  può fruire della detrazione fiscale del 19% per spese sanitarie (art. 15, comma 1, lettera c, TUIR) ma solo a determinate condizioni:

– il materasso deve qualificarsi come Dispositivo Medico Classe 1 ed avere le caratteristiche “anti decubito” (Ris.11/2007);

– bisogna essere in possesso di prescrizione medica o, in alternativa, è possibile produrre un’autocertificazione che attesti la ragione/necessità per cui è stato acquistato il materasso;

– la fattura di acquisto del materasso deve essere intestata al contribuente cui si riferisce la spesa.

Quindi, in mancanza, diffidate da siti web o televenditori che esaltano le capacità tecniche miracolose di un materasso ortopedico in memory foam con zone a portanza differenziata o con lastra interna a più strati.

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