
La testimonianza diretta del collega Paolo Iorio pubblicata con un messaggio Facebook:
C’E’ POCO DA RIDERE
Cari Colleghi,
sono un insegnante di scuola secondaria di primo grado in servizio nello stesso istituto da 34 anni. Qualcuno di voi mi conosce, forse, come autore di vignette sul mondo della scuola sotto lo pseudonimo di PAV.
Ma questo non è un post umoristico, né satirico.
A causa di una fastidiosa tosse unita a febbre, il mio medico mi ha consigliato di sottopormi all’esecuzione di un tampone. I due diversi tamponi di rito hanno confermato che ho contratto il SARS-COV2. Una tac toracica ha evidenziato un inizio di polmonite.
Ora sono fuori casa in isolamento per 10 giorni sotto terapia farmacologica endovenosa (fortunatamente la mia compagna è un’infermiera).
Mia madre, 87 anni e malata, è rimasta a casa con badante e mio figlio, tutti in quarantena per 10 giorni. Potete immaginare quanta preoccupazione e disagio comporti questa situazione.
Durante il lockdown e tutta l’estate ho fatto la spesa regolarmente, passeggiato, sono andato in vacanza nella mia provincia, ho frequentato bar e ristoranti sempre seguendo le prescrizioni di rito.
Mi è bastato un mese di scuola e mi sono infettato e sono già cinque le classi finora in quarantena, delle quali quattro terze.
Ci tengo a precisare che non insegno in una scuola del terzo mondo: durate l’estate la dirigenza e tanti colleghi e collaboratori scolastici hanno lavorato per calcolare superfici, creare nuove aule eliminando laboratori, individuare accessi aggiuntivi, disegnando percorsi per evitare assembramenti.
Tutto secondo le prescrizioni, spesso contraddittorie, degli organi competenti. Abbiamo differenziato gli orari d’ingresso e delle ricreazioni, sanificato gli ambienti ad ogni uso, dotato le classi di igienizzanti per le mani, svolto le riunioni collegiali solo online. Ma non è bastato.
Non perché le scuole siano inefficienti, gestite da incompetenti o abbiano pochi soldi o non facciano rispettare le regole ai ragazzi.
Non è bastato perché la scuola è il luogo dell’aggregazione per eccellenza, il luogo dove 25 alunni trascorrono 6 ore al giorno, se l’aula è a norma, in 40 metri quadri, il luogo d’elezione per qualsiasi contagio, come ci hanno insegnato le epidemie di pediculosi, che si presentano puntualmente ogni anno.
E stavolta, a metà settembre, sono tornati, tutti insieme, milioni di bambini e ragazzi, con il proprio bagaglio di quattro mesi di euforia da scampato pericolo, di vacanze, di feste, di baci & abbracci e di autobus e metropolitane stracolme.
La Scuola non ce la poteva fare a reggere la botta tutta insieme e lo sapevamo tutti, ma sapevamo anche che la DAD, seppur svolta con impegno e dedizione, aveva non pochi limiti e allora anch’io, seppur non troppo felice, ho ritenuto giusto ricominciare.
Ma adesso? E’ giusto continuare con le classi in quarantena “a macchia di leopardo”? E’ poi così assurdo pensare a un ritorno alla scuola non in presenza, almeno nei periodi più incerti per la salute pubblica?
Mia madre ha 87 anni, è scompensata, non più autosufficiente, la mia presenza in casa, le mie battute e l’assistenza continua l’aiutano ad andare avanti dopo la morte di mia sorella e di mio padre ma, a quanto pare, rientra tra le categorie dei “sacrificabili” al virus, perché: “Se i ragazzi rimangono a casa, chi li guarda?”.
Io me la vorrei godere ancora un po’, invece, senza dovermi sentire in colpa per aver dato la priorità ai miei doveri di insegnante.
Quello stesso insegnante che si è sentito rispondere da un alunno, invitato a tirarsi su la mascherina: “Tanto sono tutte cazzate, prof!”.
Non sono cazzate, Colleghi. Quando ci passi, te ne rendi conto.
E io, finora, sono stato pure fortunato.
Paolo Iorio